Una vecchia domanda.


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“Voi quando scattate cosa avete in mente? Avete la necessità di cogliere l’attimo oppure state già pensando alla foto finita ed appesa in un’esposizione?”

Ricordo chiaramente questa domanda fatta da Sara Munari durante un workshop. Istintivamente ho risposto: “A me interessa riuscire a riportare quello che vedo, non penso minimamente a chi vedrà la fotografia dopo”. La discussione poi si è persa per strade diverse, ma è una questione che mi è continuata a ronzare per la testa per molto tempo.

Ora, chi mi conosce almeno un po’ sa che non amo molto tutte quelle manifestazioni affettate di cui i  cosiddetti “photographers” vanno fieri e che non perdo molto tempo a caccia di “followers”. Quindi ho sempre dato poco peso a chi avrebbe guardato le mie foto, dovevano essere loro ad adattarsi a me, non il contrario. Comunque essendo un essere pensante ho continuato a pormi la domanda.

Giustamente un photoeditor parte da un’idea ben precisa; l’immagine deve essere “vendibile” e per essere vendibile deve funzionare, ovvero deve suscitare una reazione in chi la guarda. Piacere, disgusto, indignazione, identificazione, stupore , rabbia, non importa cosa, basta che lo spettatore si fermi, se lo catturi anche per pochi secondi è fatta, funziona!

Una volta c’era il photoreportage come massima espressione di tale concetto (il primo che mi colpì da giovanissimo era il celeberrimo “Country doctor” di Eugene Smith) ,ma era un’altra fotografia, oggi è necessario accelerare i tempi, una foto e via, fai scorrere il pollice in su e sei già alla foto successiva, tutto si compie in una frazione di secondo, non c’è più tempo per seguire una storia.

Dunque che fare, piegarsi ai totem “commerciali” perché la foto deve vendere o fregarsene? Può la fotografia essere oggi qualcosa in più di un bene di consumo? Credo dipenda da qual’è l’obiettivo finale (se non c’è un obiettivo stiamo perdendo tempo).

Io non devo vendere nulla, anzi spesso sono gli altri a bussare alla mia porta, però credo che, come sempre, la giusta via stia nel mezzo e come tale è anche la più difficile da seguire.

Dopo anni di fotografia anche un inetto si rende conto dell’esistenza di alcuni meccanismi psico-visivi che guidano la lettura delle immagini anche se l’occhio dello spettatore non è minimamente educato a farlo. Pensando alle foto che vado a fare mi è inevitabile ora considerare anche quanto sarà leggibile il suo contenuto ed a prendere delle scelte di conseguenza.

Ripensando quindi alla domanda di partenza, come risponderei a Sara oggi? Più o meno così:” La cosa principale per me è riuscire a riportare nella fotografia ciò che vedo, come io lo vedo, in modo comprensibile a chi la guarda”.

Probabilmente la Munari aveva gettato il sasso nello stagno per farci ragionare e, a distanza di tempo, come me ci è riuscita.

 

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